Vasco Rossi @ Stadio Olimpico – Roma 2014

Cliente: The Base

25 - 26 - 30 Giugno 2014

(fonte www.gqitalia.it di Emiliano Colasanti,  foto di Luigi Orru, Roberto Panucci, ...)

Può piacere o non piacere, ma Vasco Rossi fa parte del nostro immaginario collettivo. Ci siamo mischiati alla folla dei suoi ultras nello spettacolo più imponente dell’estate musicale.

Ciao a tutti, mi chiamo Emiliano, ho quasi trentacinque anni e sono stato un fan di Vasco Rossi. Come tutti. È inutile che cominciate a scuotere la testa, a prendere le distanze, a girarvi dall’altra parte, a fare finta di niente e grattarvi il capo: da Vasco Rossi non si scappa. Ci siamo passati tutti, l’abbiamo subito tutti, e anche se non abbiamo mai avuto il suo poster appeso in camera – io ce l’avevo, lo ammetto – e lo abbiamo odiato, detestato o semplicemente sopportato, non possiamo fare finta di non avere le sue canzoni più famose conficcate a forza dentro l’inconscio. Perché le canzoni di Vasco Rossi le conoscono tutti, anche quelli che non hanno neanche un suo disco in casa. Fanno parte della memoria collettiva di questo paese più o meno, o forse solo, come quelle della coppia di fatto Battisti/Mogol. Perché, mi ripeto, puoi vantarti quanto vuoi di non essere interessato alla musica italiana, di non avere nel tuo background certi brani, di odiare Vasco Rossi come si odia il nemico peggiore, ma le sue canzoni le conosci e probabilmente sai anche i testi a memoria, pure se non ti sei mai messo lì ad ascoltarli.

Personalmente il mio periodo di infatuazione per Vasco Rossi è durato un lampo e poco più. Cominciò quando, di fronte alla richiesta di un amico di famiglia che avrebbe voluto portarmi un regalo da Torino, chiesi “C’è chi dice no”. In cassetta. L’album era appena uscito, io ero appena un bambino e ancora non riesco a capire quale strano collegamento mi facesse associare quel disco al capoluogo sabaudo. È finita più o meno poco dopo la pubblicazione di “Gli spari sopra” ed è finita male, come sempre succede con le storie a cui non dai tanta importanza e che invece finiscono per rubare più spazio del dovuto. Perché Vasco Rossi da un certo punto in poi è diventato il nemico, l’emblema di tutto quello che non sopporto della musica italiana. L’incarnazione di tutti i cliché peggiori del rock, il divo di mezz’età che mischia sfrontatezza di facciata e laidismo fuori controllo. Il gran visir dei tamarri. E poi c’è il pubblico, il suo pubblico, quelli per cui la musica è solo Vasco e Vasco e basta, quelli disinteressati a tutto il resto e intolleranti per definizione, quelli che “alé-alé-alé-alé Vascó Vascó” e giù bottigliate contro i Jesus & Mary Chain, gli Stereophonics e chiunque altro si frapponga tra loro e il mito.

Già, e allora perché ti piaceva, direte voi? Da ragazzino avrei risposto nel modo più semplice e puro possibile: “Perché ha scritto un sacco di belle canzoni”. La verità è che Vasco Rossi è atterrato sulla musica italiana come un alieno, ha preso il cantautorato e ne ha ribaltato le consuetudini fino a renderlo una cosa “altra”, fino a portarlo negli stadi. La sua scrittura così volutamente zoppicante, strana, simile a quella di un Enzo Jannacci in acido o di un Rino Gaetano sotto psicofarmaci – cos’è Siamo solo noi, se non la Quelli che della “generazione di sconvolti”? – l’ha reso immediatamente riconoscibile e unico. Il direttore di Rolling Stone USA lo ha descritto come una bizzarra specie di Lou Reed italiano che biascica storie di strada mentre in sottofondo suonano i Van Halen, e tuttora non mi viene in mente una definizione che sia altrettanto calzante. Quello che ha fatto Vasco Rossi tra il 1978 e il 1985 non ha davvero termini di paragone credibili. Era una cosa che prima non c’era e che un secondo dopo era ovunque. Ed era enorme.

Mi sono riavvicinato alla sua figura in anni molto recenti, in piena epoca clippini, quando Vasco Rossi nel bel mezzo di una crisi dovuta a problemi di salute, poi fortunatamente risolti, decise di mollare completamente gli ormeggi, eliminare ogni filtro e fare qualsiasi cosa gli passasse per la testa.
Il periodo delle famose, e poi revocate, “dimissioni da rockstar”. Quando sembrava essere tornato la scheggia impazzita degli esordi, il matto incontrollabile, l’alieno. Appunto. Per questo, e per curiosità, ho deciso che era arrivato il momento di colmare il vuoto e andare a vederlo dal vivo, allo Stadio Olimpico di Roma, per la seconda di sette date (tra Roma e Milano) del “Vasco Live Kom 14″.

Arrivo allo stadio quando il concerto sta già per cominciare. È affollatissimo, come mai l’avevo visto per Springsteen o per Jovanotti e Ligabue. Il pubblico è già carico, il solito coro riempie l’aria e si propaga come una bomba a idrogeno. Subito rimango colpito da alcuni striscioni presenti in platea: una bandiera italiana con scritto al centro “Fratelli di Vasco” e un poco interpretabile “Pane fica e Vasco”. Quando le luci si spengono e parte lo show, capisco che la tanto strombazzata “svolta metal” che da giorni sta riempiendo le pagine dei quotidiani, e non solo, italiani, non è proprio una bugia. La batteria di Will Hunt, già con Evanescence e Black Label Society, occupa il centro dell’imponente palco, con tanto di doppia cassa e tutto il resto. Tutti i brani sono riarrangiati per far fare numeri al batterista ed effettivamente, più e più volte, si finisce in territori molto molto vicini a quelli proprio degli Evanescence: chitarroni con la doppia pennata, tappeti di tastiere gotiche e, appunto, quella batteria lì. Dopo le prime note de Gli spari sopra, il pubblico impazzisce e succede una cosa che non ho mai visto accadere in spettacoli analoghi: ovunque in platea cominciano ad accendere dei fumogeni, fumogeni veri, da stadio, e la sicurezza si affanna, per quanto può, a spegnerli. Nel frattempo i miei vicini di posto, una coppia, si riprendono in continuazione mentre cantano i brani di Vasco. Non inquadrano mai il palco, ma solo i loro volti, e anche se può sembrare un dettaglio marginale questo spiega moltissime cose sul modo in cui vengono vissuti i concerti del nostro eroe. Sempre vicino a me c’è un tizio conciato esattamente come il Rossi di fine anni novanta: cappellino militare con scritto sopra “Blasco”, occhiali da sole a fascia e pantaloni militari.

Canta ogni pezzo riproducendo alla perfezione la mimica rossiana, poi a un certo punto prende una bottiglietta d’acqua e, nonostante non faccia caldissimo – è piovuto per tutto il pomeriggio – se la svuota in testa per poi restare immobile, in trance, per tutto il concerto. Sono convinto che in ogni paese della provincia italiana ci sia un tizio conciato in questo modo, un piccolo Vasco Rossi di quartiere. Quello vero, nel frattempo, sembra essere in ottima forma, si è rasato la testa a zero, anche se dopo un pezzo ricorre al solito cappellino, e canta come nessuno si sarebbe aspettato. La scaletta è strana, quasi tutta incentrata su brani del periodo che vanno dalla fine degli anni novanta a oggi, ed è questa la cosa che mi colpisce di più. Perché qualsiasi “vecchia gloria”, chiamiamolo così, con nessuna intenzione di essere offensivi, quando arriva in uno stadio si dedica prevalentemente al repertorio storico.

Lo fanno gli Stones, lo fa Springsteen, ma Vasco Rossi no. Il suo pubblico non è solo cresciuto con lui, ma si è rinnovato anno dopo anno, tant’è che più che da nostalgici degli anni ottanta è formato da ragazzi tra i venti e i trent’anni per cui Vasco Rossi è essenzialmente quello di Stupido Hotel e Un senso. Prima dei bis, le uniche vere concessioni al passato remoto sono state La strega (la diva del sabato sera) e Sballi ravvicinati del terzo tipo in una versione che si allontana completamente da quella psichedelica (e geniale) del 1978, per sconfinare in territori vicini a quelli dei Rammstein. Anche nel classico “medley rock” i brani sono tutti più o meno recenti – Cosa vuoi da me, Gioca con me, Delusa, Mi si escludeva – eccezion fatta per Asilo Republic, riproposta come tributo agli Skiantos con tanto di grido “Uno, due, sei, nove!” prima dello stacco finale. Il palco spara fumo e fiamme, mentre i fumogeni continuano a essere accesi e spenti. Vasco Rossi sembra in buona forma, tonico, anche se spesso e volentieri si prende delle pause ed esce dal palco mentre la band continua a suonare. In una di queste avviene uno dei momenti più surreali dell’intero concerto, quando la band si produce in un interludio cantato, in inglese, da Clara Moroni (corista storica di Vasco Rossi, soprannominata “la Ferrari del rock”) che parte con batteria elettronica, chitarra acustica, voce e finisce in una cavalcata delirante in cui gli assoli a pioggia di Stef Burns vengono interrotti solo dal coro: “Rock Show”. L’altro momento top è quando, sulla coda di Siamo solo noi, entra in scena un presentatore che annuncia uno a uno i componenti del complesso. Pare sia una consuetudine degli show di Vasco Rossi, una sorta di piccolo rito, ma giuro che vedere un signore conciato da Mago Zurlì è la cosa più lontana dalla liturgia rock su cui tutto lo show è basato.

A lui tocca la dedica per Massimo Riva che manda il pubblico in visibilio e lo conduce verso la parte finale del concerto. Quella dedicata ai classiconi, con Sally, Vita Spericolata e Albachiara sparate in sequenza e poi vai con fuochi d’artificio che avrebbero fatto impallidire quelli dei Rolling Stones qualche sera fa al Circo Massimo. Vasco Rossi parla poco e quando lo fa lo fa con slogan: “Voi ce la farete tutti! Tenete duro! Tutto bene – pausa – quel che finisce – pausa – bene”. Sul palco sembra sempre, come sempre, un pesce fuor d’acqua, cosa che era e resta il suo bello. Non ha il physique du role per fare la rockstar, quando si muove sembra un coguaro perplesso, eppure è credibilissimo. Ti dà l’idea che lì sopra, tra led, fuoco, fumo e mille luci, potresti salirci anche tu, ed è questo il motivo essenziale per cui la sua gente lo ama. - powered by Kick Agency -