Sixto Rodriguez @ Gran Teatro – Roma 2015

Cliente: The Base

20 Maggio 2015

(Foto di Sabrina Vani per 100Decibel)

Sixto Rodriguez si posiziona davanti al microfono – di nero vestito, grossi occhiali specchiati – imbraccia la chitarra, si infila la tuba e la standing ovation è automatica. Dalla sala gremita il pubblico lo acclama al grido di «Sugar Man!»

La storia di Sixto Rodriguez ha dell’incredibile: rinnegato come cantante, dato per morto, resuscitato e infine assurto nell’empireo dei grandi della musica. La sua è la storia di tutti coloro che aspettano una rivalsa, l’epilogo sognato da quelli che ancora sperano in un riscatto. Difficile comprendere le ragioni per le quali il primo album di Sixto Rodriguez fu un flop clamoroso in America, mentre a circa dieci anni di distanza il suo “fantasma” accompagnava con la voce le marce di protesta contro l’apartheid in Sudafrica. La seconda vita di Sixto Rodriguez, ebbe inizio nel ’98, quando un fan e giornalista curioso si mise alla ricerca di informazioni sulla sua morte, scoprendo che invece era vivo e vegeto. Il resto è cronaca e leggenda annunciata. Una leggenda che ha preso forma lo scorso 20 maggio sul palco del Gran Teatro di Roma.

Già l’entrata in scena è una grande lezione di vita: Sixto Rodriguez, accompagnato fino al centro del palco da una delle figlie, a causa degli evidenti problemi motori, dissipa subito ogni ragionevole preoccupazione. Si posiziona davanti al microfono – di nero vestito, grossi occhiali specchiati – imbraccia la chitarra, si infila la tuba e la standing ovation è automatica. Dalla sala gremita il pubblico lo acclama al grido di «Sugar Man!». Arriva subito la prima hit, “I Wonder”, secondo brano in scaletta, accompagnata dalle urla e dal battito generale di mani. La sua voce è ancora robusta. La setlist si muove tra i capolavori di “Cold Fact” (1970), e “Coming from Reality” (1971): “Love Me or Leave Me”, “Only Good for Conversation, “Rich Folks Hoax”, “Can’t Get Away”, “The Establishment Blues”, “Climb Up on My Music”, “Crucify Your Mind”. A questi si alternano cover entrate ormai a far parte del suo repertorio: “La Bamba”, “I Only Have Eyes for You”, “Blues Suede Shoes”, “Only You”.

Tra un brano e l’altro Sixto Rodriguez confabula coi musicisti, accorda continuamente la chitarra, giustificandosi con un «Sorry, we had a quick soundcheck» (l’impressione è quella che vadano più o meno a braccio, senza seguire un ordine prestabilito). All’attacco di “Sugar Man”, introdotta da un lungo assolo di chitarra, manco a dirlo, viene giù il teatro, e in qualche modo anche la sua voce, che sulle prime sembra tentennare, vuoi per l’emozione, vuoi per l’età, vuoi per il mastodontico carico di aspettative da parte dei fan, che non lo lasciano in pace un attimo e non la smettono di esultare, di sperticarsi in incitamenti che nell’idioma locale suonano come «Vai Sisto!». Pare quasi di vederlo, fragile, disilluso, lì davanti ai nostri occhi, in un’estate di fine Sessanta in attesa della sua dolce Mary Jane a ricolorare i suoi sogni.
A metà concerto Sixto Rodriguez chiede al pubblico di avvicinarsi: ci si alza in massa dalle proprie sedute per raggiungerlo vicino al palco. Il calore che si avverte è incredibile. Sixto Rodriguez si toglie la giacca, sfoggiando un fisico invidiabile, a dispetto dell’età. Capace di reggere il confronto, non soltanto per bravura, ma anche e soprattutto per carisma e iconicità, coi grandi miti del suo tempo, nel bis ci regala la super dylaniana “Like Jenis” e la travolgente e inaspettata cover di “Somebody To Love” dei Jefferson Airplane, per chiudere, infine, con la commovente “I’m Gonna Live Until I Die” di Frank Sinatra (canzone azzeccatissima per l’uomo che visse due volte). «È un onore, un privilegio e un piacere essere qui stasera». Fidati Sixto, il privilegio è stato tutto nostro.
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