Goat @ Orion Club – Roma 2015

Cliente: The Base

06 Maggio 2015

Goat, collettivo di giovani fricchettoni svedesi che, dopo appena due album, vantano già un ottimo seguito che sfiora il culto.

Goat: il merito della loro musica, è che viaggia tra psichedelia, funk e tribalismi e la loro presenza scenica singolare, allo stesso tempo, è sempre accattivante. I Goat arrivano sul palco alle 22,30 ognuno con un proprio travestimento: non si presentano e non ci tengono a farsi vedere in volto. Gli abiti dei Goat richiamano la moda hippies degli anni ‘60/’70, ma anche quelli di certe cerimonie orientali, tanto care a quegli occidentali che cercavano in Oriente la via della spiritualità, fumandosi l’impossibile.

Si comincia con “Words” dall’ultimo album “Commune”, un tribalone con venature hendrixiane, qui allungato con una bella suite strumentale ricca di fuzz, subito seguita, senza pausa, da “The Light Whitin”, pezzo che parte piano per poi sfociare in una chitarra che sembra, a tratti, una tastiera Rhodes. Il pubblico, carico a mille, segue rapito. Merito anche delle 2 ragazze alla voce, che tra piccole percussioni da suonare con le mani e danze che profumano d’incenso, sono il focus sui cui poggia la coreografia messa in scena dalla band. “Let It Bleed” e “Disco Fever” sono i primi pezzi scelti per celebrare quel capolavoro che è il primo album “World Music”, e l’accoppiata fa ballare come impazzita l’intera sala, ed è un attimo che, complice quel sound ricco di funk, ti sembra di vedere scendere dal soffitto la palla a specchi tipica della disco anni ’70.

La scaletta dei Goat è equamente divisa tra i 2 album finora pubblicati e dopo una “Hide From The Sun” dal ricco pathos spirituale che sfocia giustamente in un’altro viaggio come “Talk To God”, ecco una tripletta di quelle che ti fanno momentaneamente dimenticare di aver voglia di una birra, e ti fanno entrare direttamente nel mondo di Carlos Castaneda. “Goatlord”, dall’incedere lento come un acido che ti cresce dentro, è breve ed ha nei suoi 3 minuti di semplicità, la perfezione delle grandi canzoni. “Goatman”, una miscela meravigliosa di fuzz, funk e wah-wah che sfocia nel basso assassino di “Run To Your Mama” creando un dialogo con la batteria che vorresti non finisse mai. I Goat escono prima dei bis che cominciano con “Gathering Of Ancient Tribes”, dove piacevolmente si ripresenta lo spettro del Jimi di Seattle. “Golden Dawn” è cantato dalle ragazze qui invasate come prede di un rito voodoo. Si chiude con “Goatslaves”, la più bella traccia dell’ultimo album dei Goat che, grazie alla sua struttura piena di stop & go, sembra proprio un’ideale sigla finale di un concerto che ha avuto, oltre che nella presenza scenica, proprio nella musica bella e senza un attimo di respiro, il suo punto di forza. Non si sono presentati, non sappiamo chi siano, se ne sono andati senza dire niente.. Vi diciamo noi chi sono: il migliore live act in circolazione!
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